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Il bambino comunica piangendo

Se il bambino piange … sono dolori; non solo per il pargolo, ma anche per i poveri genitori che spesso non sanno che pesci pigliare: ha fame, soffre di colichette, è arrabbiato? Un vero rebus.

Per altro, è un fatto tutt’altro che occasionale: si é stimato che i bambini piangono per un tempo che va dai 30 minuti alle 2 ore ogni giorno e prima dei due anni hanno pianto almeno 4.000 volte…da Guiness!

Il problema é che spesso strillare é il solo modo che il bambino ha per farci capire cosa prova, specie se appena nato; interpretarlo correttamente da quindi modo di stabilire come fare fronte ai suoi bisogni.

Il luogo comune che suggerisce, in ogni caso, di lasciarli piangere é in questo caso quanto mai inappropriato.
Gli studi al riguardo hanno infatti dimostrato che non curarsi del pianto dei piccoli può compromettere le loro future capacità di relazionarsi; inoltre, può renderli meno svegli, più cagionevoli di salute e più ansiosi.

Uno studio delle psicologhe Silvia Bell e Mary Ainswhort condotto su 36 coppie “madre-neonato” ha dimostrato che esiste una relazione tra la misura in cui bambino piange e il comportamento della madre.
Dalla loro indagine infatti é emerso che le mamme che reagivano tempestivamente ai lamenti del proprio figlio nei primi nove mesi di vita portavano il bambino a “lagnarsi” di meno nei mesi successivi.
Le autrici hanno supposto che un rapido “pronto soccorso” della madre dia il bebè un senso di sicurezza e serenità e che quindi si riduca il suo bisogno di cercare rassicurazioni.

Benché altri studi abbiano dato sostegno a questa scoperta, non è tuttavia possibile generalizzare perché l’intensità e la frequenza del pianto nel bambino dipende da molti fattori come dall’amorevolezza della mamma, dall’indole del piccolo, dal bisogno soggettivo di conforto e vicinanza del genitore e dalla tolleranza del piccolo per la noia, la solitudine, il dolore, la fame e la fatica.

Alle volte il neonato piange per scaricare un eccesso di tensione muscolare; dal momento che non dispone di altre risorse per ridurre lo stress, piange così da ridurre il sovraccarico di energia.

Tornando aall’espressione del pianto, quello di dolore é in genere quello più facile da riconoscere; per contro, diventa complesso distinguere rabbia o paura.

Un aiuto inaspettato non viene da pediatri o “tate”, ma da una nuova indagine scientifica condotta da una team di ricercatori dell’Università di Valencia, coordinati da Mariano Choliz.
Questo studio ha messo in luce che il bambino piange in modo diverso a seconda di quello che vive; l’esito é stato appena pubblicato sulla rivista “Spanish Journal of Psychology“.

Per capire il significato del pianto del bambino in fasce questi studiosi hanno esaminato il corportamento di 20 bambini di età compresa tra i 18 mesi e i tre anni; al tempo stesso hanno osservato le reazioni dei loro familiari.

Ne hanno concluso che la chiave é fare attenzione all’atteggiamento dello sguardo del piccolo: in particolare, conta il fatto che gli occhi siano aperti o chiusi: i bambini che sono arrabbiati o impauriti tenderanno a tenere gi occhi ben aperti, ma quando il “cucciolo” stringe le palpebre allora vuol dire che sta male.

Anche il modo di piangere é indicativo: è infatti più intenso e “straziante” se il bebé prova dolore o é spaventato; mentre é più blando se é seccato o infastidito.

Per approfondire

Se é un neonato a “frignare”, il suo pianto é caratteristico: singhiozzi brevi (a causa della ridotta capacità polmonare e della scarsa muscolatura toracica), acuti e ripetuti. Il volume e l’intensità dei singulti cambia a seconda delle esigenze: ad esempio, se piange per fame il pianto inizia con un gemito e diventa a mano a mano più forte e sostenuto; mentre quando prova dolore parte con un grido seguito da un secondo di silenzio e prosegue con lamenti sempre più forti e acuti.

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