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Un polico deve “sedurre”

La campagna elettorale si gioca sempre di più sull’immagine del leader. Ma come si costruisce una personalità politica? Quali sono le regole per diventare il candidato ideale.

Prendete Al Gore, per esempio. Aveva tutto dalla sua parte: otto anni di benessere garantiti da un’amministrazione democratica, una grande preparazione su tutti i temi e un avversario che sembrava destinato a inciampare nelle gaffe più clamorose. Eppure non ce l’ha fatta. Al di là del rocambolesco finale, Gore, partito in vantaggio, a un certo punto si era ritrovato nei sondaggi staccato da George W. Bush. Così staccato che alla convention dei democratici era dovuto ricorrere a un lungo bacio alla moglie per risollevarsi. Ma non gli è bastato.
Oppure prendete Francois Mitterand, né alto né bello, ma capace di fare «tutte le volte che ha potuto della sua presenza un’apparizione e del suo portamento un simbolo». Parola del suo consulente Jacques Séguéla, che al presidente più amato dai francesi dopo De Gaulle attribuisce il merito di avere capito “che il cittadino non è un consumatore razionale della politica. A differenza di un bene di consumo, un uomo di potere non si vende per dei plus di prodotto ma per dei plus dell’immagine“.

Tempi duri per i leader politici.

Avere idee e programmi non basta più. Ci vogliono personalità e carisma, sensibilità e umiltà, forza di volontà e competenza.
Antonio Foglio, studioso di marketing elettorale, ha messo in fila ben 27 doti da possedere. E, tanto per rafforzare il concetto, ha aggiunto 13 difetti imperdonabili, dalla pretesa di sapere tutto fino alla scarsa memoria. In realtà Foglio sostiene che in una campagna elettorale “puntare tutto sul candidato è una scelta pessima, perché in politica contano le idee» e, alla fine, il ‘prodotto’ che si vende all’elettore è il programma e non il candidato“.

Ma “non serve a nulla essere competenti o sinceri se non si sa dare l’impressione di essere competenti e sinceri“, dice il politologo francese Roland Cavrol. La sostanza conta, insomma, ma solo se è coerente con l’immagine. Il candidato deve «sapere come interessare il proprio pubblico e, se possibile, come sedurlo, compiacerlo, emozionarlo», prosegue Cayrol. L’emozione è indispensabile. “Senza emozione non si memorizza” alcun messaggio», spiega Annamaria Testa, docente di comunicazione all’Università Iulm di Milano e autrice di un libro dall’eloquente titolo di “Farsi capire”, “perché è la carica emozionale che ci aiuta a trasferire un ricordo nella memoria a lungo termine“.
Il leader deve essere capace di rendersi simpatico, di mettere in gioco le nostre emozioni, se vuole trasmetterci delle idee“, conferma Carlo Bandiera, docente e consulente di comunicazione.

E Marco Pacori, psicologo, specialista del linguaggio del corpo nota una somiglianza tra l’atteggiamento di chi cerca consensi elettorali e quello dell’uomo che corteggia una donna, “un modo di fare virile, ma tenero e disponibile, di chi è pronto ad occuparsi di voi“. Al corteggiamento, si sa, qualcuno resiste e qualcun altro no. Ma sapere quali tipi di messaggio un politico ci vuole trasmettere e interpretarli correttamente può essere già un vantaggio.
Ecco alcuni esempi. Quando guardate un candidato fate sempre attenzione al modo in cui è vestito e all’atteggiamento che ha, perché questi che sembrano dettagli nascondono messaggi fondamentali. «Il modo in cui ci si presenta è essenziale», spiega Bandiera, “giacca e cravatta ispirano serietà e rispetto, rappresentano un messaggio più razionale: sono colto, so le cose, devi fidarti di me. Un abbigliamento sportivo ispira vicinanza, è un messaggio più emotivo: sono uno come te“. In un manifesto guardate testa e mani: “Le braccia aperte, il sorriso, la testa leggermente inclinata evocano disponibilità“, racconta Pacori.
Seduti davanti alla tv, tenete conto anche dei movimenti. “Chi gesticola viene considerato estroverso. Spostarsi serve a staccarsi dallo sfondo,
a emergere, ma anche a occupare più spazio, perché il nostro inconscio percepisce una persona in movimento come una pellicola fotografica percepisce la scia dei fari di un’auto al buio
“, continua Pacori.

Se vi accorgete che un candidato non propone soluzioni concrete ma si limita a enunciare un problema, è inutile che vi arrabbiate. Non è detto che di proposte non ne abbia. Il fatto è che sta usando una tecnica precisa, per “occupare uno spazio, far vedere che su quel tema è presente“, spiega Testa. “Le argomentazioni verranno dopo, anzi il più tardi possibile per non dare all’avversario il vantaggio di conoscerle e poter controbattere. L’ideale sarebbe dire tutto negli ultimi giorni, cosa ovviamente impossibile“, aggiunge Bandiera. “Ma gli slogan generici possono essere an-che un primo passo per tentare di convincerci se siamo lontani dalle sue idee”, riprende Testa, «Per coprire questa distanza che c’è tra noi e lui l’unico sistema è partire da un con-cetto condiviso da entrambi, un minimo comune denominatore sul quale siamo per forza d’accordo. Se ti dico che esiste un certo problema, la disoccupazione o l’ambiente, sei certamente d’accordo. Se ti dico come lo voglio risolvere forse no. E poi è un modo per togliere argomenti ai rivali, entrando nel loro campo“.

Spianare l’avversario sul suo terreno è il sogno proibito di tutti, ma solo raramente si avvera. Ce l’ha fatta, per esempio, George W. Bush annunciando una squadra di governo fatta anche di neri e portoricani. Nessuna di queste persone ha detto o fatto nulla durante la campagna elettorale, ma agli americani è stato chiaro, emotivamente più che razionalmente, che la difesa delle etnie più deboli, un argomento classico dei democratici, era in mano ai repubblicani.

Le parole, in questi casi, sono superflue. Se un candidato ne usa molte non illudetevi che sia perché vi considera intelligenti. Più probabilmente pensa di aver già fatto breccia nel vostro cuore. E se invece vi annoia, se non vi interessa ciò che dice non prendetevela. Non sta cercando di convincere voi. Magari perché ritiene che lo voterete comunque, o al contrario che non lo votereste mai. “E’ difficile, o assai costoso, tentare di convincere chi la pensa in modo molto diverso. Così si punta agli indecisi e a coloro che comunque sono potenzialmente più vicini alle proprie idee. Ed è questo che porta alla famosa corsa al centro“, spiega Testa.

Tra due leader che si affrontano pubblicamente volete sapere in fretta chi ha maggiori probabilità di vincere il confronto, di tare più presa sul pubblico? Per prima cosa fate attenzione a chi rispetta meglio le regole del gioco. «Il politico deve adeguarsi, ma in modo naturale, autentico”, spiega Maria Luisa Bionda, esperta di marketing, che ha studiato a fondo la comunicazione politica in tv.

La trasgressione alle regole, infatti, ha un impatto negativo sul pubblico. “Alla fine buona parte delle cose dette si perde, ma resta l’emozione che un candidato è riuscito a trasmettere e la congruenza tra i gesti, la voce, la faccia, i contenuti. Mentire, su questo piano, é assai difficile“, avverte Testa. «L’aggressività di solito non paga», dice Pacori. Però, aggiunge Bionda, “se i tuoi elettori amano affermare la propria identità, allora si può anche accettare uno scontro“. Meglio comunque ritagliarsi il ruolo di quello che alla fine trae le conclusioni, “anche usando le cose dette dall’avversario, per apparire il più autorevole“, insiste Bandiera.
Chi vuole apparire a tutti i costi superiore all’avversario rischia invece di finire come Al Gore: durante un faccia a faccia con Bush sospirava in continuazione mentre parlava l’avversario, ma questo atteggiamento risultò odioso per gli ascoltatori.

Delusi? Ancora più diffidenti nei confronti della politica e dei politici? “Ma questo è l’unico modo in cui può funzionare un sistema democratico“, sostiene Annamaria Testa, “della comunicazione persuasiva non c’è più bisogno solo quando uno decide per tutti“. E poi studiosi come Allan Louden, docente di comunicazione alla Wake Forest University della Virginia, ritengono che la scelta di un candidato sulla base delle sue caratteristiche personali non sia per nulla un fatto irrazionale e rispecchi invece i meccanismi di valutazione che usiamo nella nostra vita quotidiana.

Paolo Magliocco (Quark, aprile 2001, pag. 116-120).

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