Tutti questi input arrivano al nostro cervello, eccitando in particolare la regione temporale anteriore sinistra; da qui a sua volta parte una trasmissione nervosa che attiva due muscoli del volto; lo zigomatico maggiore, che si trova sotto la guancia e spinge gli angoli delle labbra verso l’alto e l’orbicolare dell’occhio, che circonda la cavità oculare, “strizzando” gli angoli esterni e dando luogo alle cosiddette zampe di gallina.
Questa sequenza é piuttosto breve – di solito dura da due terzi di un secondo a quattro secondi – e suscita a sua volta la stessa azione, e piacevolezza, nell’altro.
Tuttavia, l’effetto positivo vale solo se il sorriso é genuino; quando é di circostanza provoca una reazione opposta; lo hanno dimostrato, gli psicologi Erin Heerey e Helen Crossley con una nuova ricerca.
In una prima fase dell’esperimento, i due studiosi hanno analizzato dei filmati di interazioni spontanee: da qui é emerso che buona parte delle volte un sorriso vero suscitava un’imitazione naturale nell’altro; cosa che invece non accadeva quasi mai se il sorriso era di convenienza.
In un successivo disegno sperimentale, 35 partecipanti erano stati ingaggiati per un semplice compito di apprendimento: in sostanza, dovevano allenarsi ad associare dei tasti del PC con delle immagini; se l’abbinamento era corretto, veniva mostrata una faccia sorridente che poteva essere sincera o fasulla; al contrario, se l’associazione era sbagliata, appariva un volto corrucciato.
Prima dell’esecuzione dell’esercizio, ai soggetti venivano applicati degli elettrodi in corrispondenza di tre muscoli del lato sinistro del volto (la parte più espressiva della faccia): il muscolo zigomatico, quello orbicolare e il corrugatore delle sopracciglia (che produce le espressioni di collera, paura, ansia e disgusto) per registrarne la tensione in modo obiettivo.
L’esito ha dimostrato che, quando i volontari venivano “premiati” con uno “smile” genuino, imparavano più velocemente; il valore di ricompensa del sorriso vero veniva convalidato dalla registrazione concomitante di uno stato di tensione muscolare nello zigomatico e nel muscolo orbicolare.
Se sorridere controvoglia porta a scarsi effetti positivi sul piano interpersonale, non é vantaggioso nemmeno per se stessi: è quanto é emerso da uno studio svolto da Brent Scott e Christopher Barnes.
Questi ricercatori hanno voluto verificare se mostrarsi gioviali e cordiali quando si prova del malcontento possa peggiorare il proprio stato d’animo. Naturalmente, chi, se non dei lavoratori che hanno a che fare con il pubblico, poteva essere migliore candidato per questa indagine.
Hanno quindi reclutato 68 conducenti di autobus; proprio questi ultimi hanno frequenti interazioni con gli utenti e sono istruiti ad accogliere i passeggeri con un sorriso, scambiare con lo loro qualche battuta e mostrarsi comunque disponibili.
Gli autisti sono stati monitorati per un periodo di due settimane: al momento di “timbrare il cartellino” indicavano su una scala il proprio stato d’animo (ad esempio, “irritato“, “agitato” o “stressato; oppure “entusiasta“, “rilassato” o “allegro”).
Al termine del turno di lavoro, gli stessi impiegati segnavano quanto erano stati “ipocriti” nelle interazioni con i clienti; gli esiti di questi due “registri” venivano poi confrontanti con un terzo questionario in cui gli autisti giudicavano la misura del proprio “disamore” per il lavoro: qui dovevano segnare per esempio se “avessero lasciato fare a qualcun altro le proprie mansioni“, se “si sfossero dilungati troppo nei momenti di pausa” o se “si erano occupati di faccende personali in orario di lavoro“.
Ne é risultato che quanto più i lavoratori si erano impegnati a “far buon viso a cattivo gioco”, tanto più tendevano ad essere demotivati, snervati, permalosi e depressi; queste reazioni erano maggiormente sentite dalle donne; probabilmente perché sono maggiormente a contatto con le loro vere emozioni.
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in conclusione, sorridere, mostrarsi entusiasti e compiacenti nell’ambiente di lavoro o nei propri rapporti interpersonali quando si é scontenti, non solo fa sì che l’altro non mangi la foglia, ma impedisce di sfogare il proprio malumore e, alla lunga, determina uno sforzo che rende indolenti, esauriti e demoralizzati.