Quello che avvertiamo, infatti, é un miscela di stress emotivo e di alterazioni fisiologiche legate a questa condizione, come la costrizione toracica-muscolare, l’aumento della frequenza cardiaca, spasmi allo stomaco e la mancanza di respiro. La ricerca ha dimostrato che la sofferenza emotiva condivide le stesse regioni del cervello del dolore fisico, suggerendo le due esperienze sono inestricabilmente collegate.
Naomi Eisenberger, co-direttore del Social Cognitive Neuroscience Lab presso l’UCLA, ha per primo, scoperto in modo sperimentale come dolore fisico e psicologico attivino le stesse aree cerebrali.
“Il dolore fisico ha due componenti“, precisa la Eisenberger, “sensoriale ed emotiva. La componente sensoriale del dolore fisico è rappresentata nel cervello in modo diverso a secondo di quale zona del corpo é dolente o ferita, ma la componente emotiva – che dipende dal modo di percepire la sofferenza da parte del cervello – è registrata nella corteccia cingolata anteriore dorsale (DACC). La stessa aerea dove viene elaborato il dolore da esclusione, rifiuto o abbandono“.
“La dimensione affettiva del dolore riguarda la preoccupazione per quest’esperienza e per le sue conseguenze e attiva appunto la DACC e l’insula anteriore“(la regione che ci rende consapevoli delle percezioni del nostro corpo), aggiunge la ricercatrice.
Il DACC, che è ricco di recettori per le endorfine (oppiacei endogeni del cervello) ed é anche la sede dove agiscono gli oppiacei sintetici come l’eroina e l’ossicotone (un oppioide agonista, da 2 a 4 volte più efficace della morfina).
Questa constatazione aiuta a comprendere perché una delle affermazioni più comuni di persone che assumono antidolorifici derivati dalla morfina é che il dolore non scompare del tutto, ma piuttosto diventa più tollerabile.
La Eisenberger ha appurato che anche gli analgesici non-oppioidi, come il paracetamolo (Tachipirina), possono alleviare il dolore sociale. In uno studio pubblicato nel 2010, un’equipe di ricerca da lei capitanata ha dimostrato che le persone che avevano assunto Tachipirina per tre settimane hanno riferito non solo di essere più indiffenti all’esclusione sociale rispetto a quelli trattati con placebo, ma anche che in loro é stata rilevata una chiara riduzione del’attivazione cerebrale nel DACC in risposta al rifiuto.
La percezione del dolore toracico in relazione ad una delusione amorosa è stata studiata anche da un team di ricercatori dell’Università dell’Arizona e di quella del Maryland: questi studiosi, in linea con quanto individuato dalla Eisenberg, hanno ha messo in luce che quando l’esperienza emotiva é troppo penosa viene registrata dalla corteccia cingolata anteriore; quest’ultima, a sua volta provoca un aumento dell’attività del nervo vago (il nervo che ha il ruolo più importante nel controllo della muscolatura liscia e che inizia nel tronco cerebrale, si collega al collo, al torace e l’addome). Quando questo fascio nervoso è sovrastimolato, può provocare crampi e contrazioni che danno luogo a fitte e ad un senso di nausea.
Le conseguenze di una rottura amorosa possono essere anche peggiori e paragonabili ad una crisi di astinenza: chi é profondamente innamorato e e vede infranti i propri sogni d’amore può provare ansia, prostrazione, crisi irrefrenabili di pianto, tremori, insonnia, irritabilità, sensazione di freddo intenso e disturbi gastrointestinali: ne più ne meno come un tossicodipendente che non riesce a procurarsi la dose.
I primi ad intuire il collegamento tra passione amorosa e dipendenza da eroina sono stati lo psicologo Art Aron, il neurologo Lucy Brown e l’antropologa Helen Fisher.
Nel loro studio, condotto nel 2005, i partecipanti, tutti profondamente innamorati, hanno visualizzato le foto delle proprie “fiamme”, mentre il loro cervello veniva scansionato con l’fMRI (risonanza magnetica funzionale, una strumentazione in grado di evidenziare le modificazioni del flusso sanguigno dell’encefacolo).
Bene, l’esito ha dimostrato che non appena compariva l’immagine dell’amato, si attivava il nucleo caudato; una struttura che costituisce il perno del cosidetto “circuito del piacere” o “della ricompensa” e che, per i propri scambi chimici impiega la dopamina; la molecola che viene “liberata” in chi fa uso di stupefacenti.
L’effetto di questo rilascio per cause “romantiche” non é diverso da quello indotto da eroina e nicotina: una volta provato il “gusto frutto proibito” se ne vuole ancora e ancora … una vera e propria tossicodipendenza.
lo stesso team che ha messo in luce la “dipendenza d’amore”, si é riunito nel 2010 per verificare cosa accadeva nel cervello di chi aveva subito una delusione sentimentale.
Per verificarlo, hanno scelto un gruppo di volontari “mollati” da poco, che riferivano di pensare al ex partner per buona parte delle ore di veglia e di non desiderare altro che riunirsi a lei o lui.
Questi “infelici” riconoscevano, inoltre, di agire fuori controllo e di tempestare l’ex con telefonate, email, sms; di far improvvisate alla persona amata sul posto lavoro, a casa, in palestra e di rovesciarle addosso suppliche, disperazione, dichiarazioni d’amore e rabbia.
Anche in questa occasione, l’esperimento era replicato (seppure con uno scenario ben più “drammatico”): i soggetti, infatti, monitorati con l’fMRI, vedevano foto dei loro partner.
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Pure questa volta, il loro nucleo caudato si “infiammava”: i neuroni di questa regione si predisponevano “ad attendere la ricompensa” (la dopamina), ma questa, ovviamente non arrivava; quindi, questi individui erano ancora innamorati e, per di più frustrati e “frastonarnati”.
La conseguenza di queste attese deluse erano proprio i sintomi da astinenza e il corportamento incoerente che ne derivava.
Questo quadro la dice lunga sulle cosiddette pene d’amore; non sono un capriccio e non bastano rimedi come “chiodo schiaccia chiodo” o distrazioni varie per fronteggiarle: sono una malattia vera e propria e come tale vanno prese serie contromisure.