Lo dimostra uno studio condotto dagli psicologi americani Lane Beckes, James Coan e Karen Hasselmo.
I ricercatori hanno reclutato un gruppo di 22 partecipanti e hanno scansionato la loro attività cerebrale con l’ fMRI, mentre venivano minacciati di ricevere delle scosse elettriche; in alternativa, gli studiosi dicevano loro che le avrebbero somministrate ad un amico oppure ad uno sconosciuto.
I risultati hanno dato prova che regioni del cervello responsabili della risposta alle minacce – insula anteriore (l’area che ci da modo di prendere coscienza delle sensazioni interiori e del dolore), putamen (che coordina le reazioni motorie – in questo caso, la risposta di ritrazione dal punto in cui i soggetti immaginavano di prendere la scossa) e giro sopramarginale (la cui regione destra del giro gioca un ruolo centrale nel controllare l’empatia)- si sono attivate sotto la minaccia di prendere la shock elettrico; cosa che non ha sorpreso gli studiosi.
Nel momento in cui i ricercatori hanno minacciato di fare lo stesso ad un estraneo, quelle regioni cerebrali non hanno mostrato alcuna reazione.
Ma quando hanno annunciato che avrebbero dato la scossa ad un amico, le regioni cerebrali indicate hanno mostrato un’attività quasi identica a quella registrata dal volontario.
“La reazione cerebrale, che si trattasse del soggetto oppure dell’amico era sorprendentemente simile“, ha commentato James Coan, docente di psicologia all’U.Va.’s College of Arts & Sciences, nonché co-autore dello studio. “La scoperta dimostra una notevole capacità del cervello di identificarsi negli altri: le persone a noi vicine diventano parte di noi stessi; specie quando percepiamo che sono in pericolo; non così se a essere minacciato è un estraneo.
Secondo Coan questa immedesimazione avviene è probabilmente perché gli esseri umani hanno una necessità innata di avere amici e alleati, che possano schierarsi con loro e vedere le cose con la stessa ottica; inoltre, più le persone trascorrono più tempo insieme, più diventano simili.
“Si tratta fondamentalmente di una fusione con l’altro: il nostro io tende includere in sé le persone chon cui siamo in intimità“, aggiunge Coan. “Se un amico è in pericolo, abbiamo la sensazione di essere noi stessi in pericolo. Siamo in grado di capire il dolore o le difficoltà delle persone care vivendo lo stessa esperienza sensoriale dell’altro “.
“Questa probabilmente è la fonte dell’empatia, e parte del processo evolutivo“, conclude Coan.
In una ricerca affine, Tania Singer, Ben Seymour, John O’Doherty e altri colleghi hanno voluto verificare cosa succedesse nel cervello di qualcuno che assistesse alla tortura della persona amata.
Per verificarlo, gli studiosi hanno coinvolto 16 coppie. In una condizione sperimentale, la donne (cui veniva monitorato il cervello con fMRI), analogamente allo studio citato, venivano posti degli elettrodi sulle dita di una mano e, attraverso avrebbero ricevuto una scarica elettrica.
Nell’altro disegno sperimentale, lo scenario era praticamente identico, ma la “vittima” era l’uomo, con la partner a guardare.
Le volontarie vedevano solamente la propria mano o quella del compagno, mentre su uno schermo posto davanti a loro comparivano dei simboli che indicavano che lei o il compagno avrebbero ricevuto una scossa debole (non dolorosa) o forte (che faceva male).
Il confronto dell’attività cerebrale osservabile in rapporto a stimoli dolorosi e non dolorosi quando veniva somministrata la scossa ha messo in evidenza che nel primo caso si notava una maggiore attivazione della corteccia somatosensoriale primaria e secondaria; dell’insula posteriore, nel talamo medio dorsale, nel tronco encefalico e nella sezione destra del cervelletto: tutte regioni che precedenti studi hanno dimostrato si attivano in presenza della sofferenza.
L’aspetto più sorprendente è stato però constatare che le donne, quando vedevano i simboli che segnalavano che al partner sarebbe stata somministrata una scossa dolorosa, mostravano un’eccitazione delle regioni della corteccia cingolata anteriore (AAC) e nell’insula anteriore (AI), evidenziando il fatto che condividevano, non tanto la sensazione fisica del dolore, quanto l’esperienza emotiva (spavento e ansia).
Per approfondire |
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Sebbene le ricerche citate si siano soffermate sulla “comunione” di cervelli tra persone in intimità, la sintonia cerebrale é possibile anche fra sconosciuti.
Questo vale per chi é particolarmente sensibile; se le emozioni (specie il dolore, la gioia e il disgusto) siano espresse in modo particolarmente sentito e in situazioni in cui un’esperienza emotiva viene condivisa: in quest’ultimo caso, i cervelli di più persone possono funzionare in “coro”, né più né meno come dei computer connessi in rete.
Carl Gustav Jung l’aveva vista lunga al riguardo…