In tutti questi casi, si produce una più o meno evidente dilatazione delle pupille dell’occhio.
Il cambiamento nelle dimensioni della pupilla non é, infatti, legata solo alla quantità di luce, ma anche allo stato emotivo: si espande con l’eccitazione (sia fisica che mentale) e si restringe con la distensione.
Sulla base di questa constatazione gli psicologi Katie Burkhouse, Brandon Gibb e Greg Siegle hanno ipotizzato che proprio questa variazione potesse essere manipolata per determinare il rischio di depressione nei figli di madri che soffrissero di questo disturbo.
Per accertarsene, gli studiosi hanno reclutato un campione di bambini di donne fortemente depresse e hanno misurato la dilatazione delle loro pupille mentre vedevano succedersi sul monitor di un computer dei ritratti di volti atteggiati alla rabbia, alla felicità e alla tristezza.
Dopo aver annotato il grado di dilatazione delle pupille dei bambini ai diversi stimoli, i piccoli sono stati tenuti sotto osservazione per un periodo di due anni.
Questo monitoraggio ha dato modo di constare che, a confronto degli altri, chi aveva reagito alle facce tristi aveva una probabilità significativamente più elevata di sviluppare, in questo lasso di tempo, i sintomi di una depressione clinica.
In un’intervista, Gibb ha commentato che un test del genere può essere effettuato da qualsiasi pediatra con un “equipaggiamento” piuttosto rudimentale: uno strumento per la pupillometria e delle foto che mostrino in modo chiaro la mimica facciale delle sei emozioni base (felicità, tristezza, collera, disgusto, sorpresa e paura).
Naturalmente, questo “scrupolo” dello specialista va riservato a bambini le cui madri abbiano una diagnosi conclamata di depressione e l’eventuale esito positivo non va preso come una condanna, ma come un’indizio che porti a prestare particolare attenzione ai possibili segni precoci di questa “malattia dell’anima”.