In tempi non-polically correct, i genitori per richiamare all’ordine i propri figli disobbedienti minacciavano di chiamare l’uomo nero.
Potremmo pensare che questo monito derivasse da un pregiudizio razzista verso gli uomini di colore, ma spesso veniva pronunciato da individui che non avevano nemmeno mai visto un nero africano; per i quali cui, cioè la rappresentazione mentale di questo spauracchio non poteva coincidere con quella di un uomo di colore.
Allora, da dove nasceva questa figura? Lo stereotipo “nero è cattivo” trova le sue radici nella tendenza umana profonda ad associare oscurità e pericolo. Nel corso del tempo e trasversalmente tra le culture, si è diffusa l’idea che i malfattori agiscano soprattutto di notte (come i predatori in natura, per altro) e che vestano abiti neri. Tutt’ora questa convinzione condiziona fortemente i nostri giudizi; anche quando viene espressa in modo velato.
Lo prova una recente ricerca degli psicologi Adam Alter, Chadly Stern e Yale Granot assieme ad altri colleghi. Il loro studio ha messo in luce che pressoché tutti condividiamo uno stereotipo che ci porta, indipendentemente dalla razza, a percepire chi ha la pelle scura come un probabile candidato a commettere azioni illegali, brutalità o atti osceni. Per giungere a queste conclusioni hanno elaborato una serie di indagini.
Nei prima due, i ricercatori hanno voluto verificare se i media (nello specifico, i giornali) tendano a scegliere foto “ombrose” di personaggi in vista quando il tema dell’articolo siano le loro malefatte.
Per accertarsene, hanno, per prima cosa raccolto un database di notizie disponibili in rete riguardanti celebrità di entrambi i sessi nel periodo del periodo 2011-2013.
Successivamente, da questo insieme hanno estrapolato un campione di articoli per verificare se contenuto dei pezzi era soprattutto negativo, neutro o positivo.
Quindi, hanno codificato il tono della pelle dei ritratti fotografici che li accompagnavano in base ad una scala che andava da “luminoso” a “scuro”; inoltre, per evitare “falsi positivi” è stata controllata anche la qualità tecnica della foto; così quelle scadenti venivano scartate.
Dopo questa attenta scrematura, gli studiosi sono giunti alla constatazione che che gli articoli che parlavano di scandali sessuali o politici e crimini venivano abbinati a fotografie dai toni cupi.
In un altro studio, i ricercatori hanno replicato lo studio puntando il “tiro” stavolta sui membri bianchi e di colore del congresso americano in un lasso di tempo che andava dal 1997 al 2014.
La procedura di analisi era la stessa adottata nella prima indagine: anche qui è emerso che, indipendentemente dalla razza e dall’appartenenza politica, di senatori o parlamentari, se la facevano “sporca” gli articoli che li riguardava venivano affiancati da foto dalle tinte fosche.
Appurato, quindi che questa associazione era comune Alter e la sua equipe se sono chiesti il perché. La risposta sarebbe potuta risiedere nella diffusa convinzione che oscurità coincida con malvagità.
Per verificare questa supposizione, il team ha selezionato un gruppo di giudici il cui compito era “etichettare” positivamente o negativamente un uomo di cui venivano mostrato un breve filmato.
Le riprese erano quelle sgranate tipiche di un impianto di videosorveglianza assieme ad una concisa descrizione di quello che la figura ripresa stava facendo prima o avrebbe fatto dopo essere stato “immortalato”.
In alcuni casi, veniva detto che l’uomo (etichettata come soggetto “a”) aveva commesso un atto lodevole, come rischiare la vita per salvare qualcuno o fare la carità ad un bambino. Nell’altra versione, invece, veniva riferito che chi (definito soggetto “b”) era stato filmato aveva commesso un atto immorale come omicidio o abuso.
Dopo aver visualizzato filmati e descrizione, ai partecipanti veniva mostrata foto “formato tessera” di uno stessa persona: l’immagine era stata ritoccata in mente da risultare più chiara o più scura. Compito dei volontari era indicare in una scala da 1 (sicuramente soggetto “a”) a 6 (sicuramente soggetto “b”) di quale dei personaggi descritti si trattasse. Inoltre, erano stati misurati gli atteggiamenti razziali dei volontari. Infine, per avere un dato slegato dal colore della pelle, ai volontari veniva chiesto di che colore era l’anima di queste persone
L’analisi dei dati ha messo in luce che i partecipanti con tendenza alla discriminazione verso le minoranze più scure, come gli afro-americani, era più probabile che scegliessero la fotografia più scura quando veniva domandato loro chi ha commesso l’atto immorale. Questo risultato non è poi così inatteso.
Ben più sorprendente è stato l’esame delle risposte riguardanti il colore dell’anima: indipendentemente dalla razza, quelli la cui foto era più scura erano indicati anche, non solo più sospetti, ma anche con l’anima più cupa.
Sebbene la psicologia abbia ampiamente dimostrato l’abbinamento tra pelle scura e tratti negativi della personalità, questa è il primo studio a provare che è vero anche l’inverso: quando veniamo a conoscenza di un atto criminale tendiamo a ritenere probabile che il colpevole abbia la pelle scura.
In linea con questo risultato, gli psicologi Aldert Vrij, Helen Pannell e James Ost hanno scoperto che dei giurati che debbano stabilire se un sospetto di un crimine sia colpevole, lo ritengono tale più facilmente se indossa abiti scuri piuttosto che chiari.
Per approfondire |
Questi preconcetti possono influenzare la nostra percezione sociale: ad esempio, se siamo in fila e non troviamo il portafoglio, la persona su cui punteremo i nostri sospetti sarà verosimilmente quella con la pelle più scura oppure se qualcuno ci avvicina di sera e il suo volto é in ombra ci susciterà
uno stato di allarme, o, ancora, se siamo stati testimoni di un crimine, e ci
vengono mostrate delle foto di potenziali indiziati, l’immagine dai toni più
cupi ci orienterà inconsapevolmente in quel senso.
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