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L’abito di una donna nel mondo del lavoro fa la differenza

Il linguaggio del corpo si esprime attraverso gesti, posture, mimica facciale, ecc., ma anche abiti, scarpe e altri accessori di abbigliamento trasmettono gli stessi messaggi con il loro colore, la loro foggia, la dimensione, ecc.; tanto che esiste una branca della psicologia che si occupa proprio dell’effetto emotivo e relazionale del vestiario.

Un tempo c’era l’usanza la domenica di indossare l’abito della festa o della messa … quando chi poteva permettersi più di un abito che non fosse rappezzato o consunto era fortunato.

In ogni caso, in quell’epoca, come oggi, un vestito decoroso, non solo dava l’impressione di essere curati, ma faceva sentire la persona maggiormente a suo agio e, soprattutto, adeguata alla circostanza.

Una funzione, questa dell’abbigliamento, che, seppure in modo più moderato, conserva ancora oggi.

Basti pensare a come ci sentiremmo se nell’intimità della nostra casa continuassimo a vestire la divisa o i panni del lavoro o, se per contro, durante lo svolgimento dei nostri incarichi, ci infilassimo boxer e maglietta sgualcita.

Per altro, vestire in modo casual in ufficio o in magazzino potrebbe indurre il dipendente ad una maggiore distrazione (non sentendosi del tutto nel ruolo) e anche ad essere meno efficiente e più maldestro nelle proprie mansioni, commenta Karen Pine, docente presso la Hertfordshire University nel Regno Unito psicologa dell’abbigliamento.

Per altro, vestire in modo formale e ricercato al lavoro, sostiene Peter Glick, titolare della cattedra di in scienze sociali presso la Lawrence University di Appleton in Wisconsin, ha un valore equivalente al l’uniforme o alle mostrine in ambito militare: caratterizza il ruolo gerarchico.

Questa consuetudine penalizza soprattutto le donne: se vogliono fare carriera“, aggiunge Glick, “non sono costrette necessariamente vestirsi come gli uomini, ma devono vestirsi con una mise take da soddisfare le aspettative dei responsabili delle assunzioni“.

Un compito che può rivelarsi un vero esercizio di equilibrismo; se da un lato, i vertici gradiscono donne che appaiano calorose e cordiali; dall’altro, se queste ultime danno a vedere di essere troppo disponibili, sorridenti o attraenti rischiano di restare incastrate in quel ruolo e, di non essere prese seriamente in considerazione per un eventuale promozione.

In linea con queste osservazioni, i ricercatori By Olivia O’Neill e Charles O’Reilly della Stanford Graduate School of Busines hanno condotto un’indagine 132 laureate scienze aziendali.

Ne è emerso che le donne che sono più facilmente prese in esame per ruoli dirigenziali risultano più sicure di sé, intraprendenti e dominanti, ma sono anche capaci di smussare questi lati per mostrarsi, all’occorrenza, più civettuole.

Queste ultime, infatti, vengono promosse 1,5 volte più spesso rispetto alle loro pari più stereotipamente femminili, cioè premurose, docili e sensibili.

Al momento dell’assunzione, comunque, la fa da padrone ancora la scollatura.

Per approfondire

Un nuovo studio presentato l’anno scorso alla “Appearance Matters Conference” e condotto dal ricercatore francese Sevag Kertechian si é
proposto l’obiettivo di valutare quanto incidesse l’abbigliamento femminile
nella valutazione delle candidate per un posto di lavoro
come contabile o nel ramo della vendita.

L’esito, per certi versi sconcertante ha dimostrato che se nelle foto
allegate al curriculum le donne erano più “discinte” la probabilità di venire
convocate per un colloquio era 5 volte superiore rispetto alla
loro versione identica, ma più “castigata”.

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