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Il pianto é unicamente umano

Possiamo piangere per il dolore, per la paura, per la disperazione, per la gioia … e perfino per una cipolla!

Il pianto, infatti, é una reazione ad una moltitudine di stimoli, a volte emotivi e a volte legati ad una semplice irritazione dell’occhio; è inoltre, un comportamento molto complesso condizionato da norme culturali, dalle attitudini personalità, dall’educazione e dal genere sessuale di appartenenza.

Molti animali esprimono delle emozioni, anche complesse, ma solo l’essere umano piange in conseguenza di uno stato d’animo.

Per prima cosa, va puntualizzato che non tutte le lacrime sono uguali: esistono, ad esempio, le “lacrime basali“, sempre presenti sulla superficie dell’occhio e hanno lo funzione di lubrificarlo e nutrirlo; ne produciamo circa mezzo litro all’anno e costituiscono tre strati mucoso, acqueo e oleoso.

Il secondo tipo di pianto, chiamato “lacrime di riflesso“, serve a proteggere gli occhi da da sostanze e stimoli irritanti, come il vento, il fumo o le esalazioni delle cipolle; la composizione chimica di questi “lucciconi” é diversa da quelle basali: queste lacrime sono ricche di anticorpi che possono distruggere gli organismi estranei che vengano a contatto con la cornea.

Il terzo tipo di lacrime sono quelle più familiari: si producono in conseguenza allo sfogo emotivo; uno studio del 1980 ha tilevato che lacrime di questo genere contengono più proteine rispetto ad altri tipi di “gocce” e presentano tracce dei neurotrasmettitori, ad esempio, le encefaline (antidoti al dolore). Gli oftalmologi svizzeri Xavier Daniel Martin e Mary Brennan hanno riscontrato in questo “fluido emotivo” perfino serotonina (il modulatore dell’umore) e dopamina (legata al piacere e alla dipendenza).

Come abbiamo anticipato, Diversi fattori giocano un ruolo nella propensione a piangere. Le differenze sessuali contano molto al riguardo: in ogni parte del mondo, si é osservato, le donne piangono più degli uomini.

Nel 1980, il biochimico William Frey ha scoperto che le donne piangono una media di 5,3 volte al mese; mentre chi appartiene al “sesso forte” “goccia” appena 1,3 volte nello stessso arco di tempo.

In parte il motivo di questa differenza é culturale, ma in una certa misura é determinata biologicamente: il tasso ematico del testosterone (l’ormone maschile) può inibire il pianto; mentre la prolattina (un neuropeptite più concentrato nell’organismo femminile) può renderci più “frignoni”.

Tuttavia, al riguardo, sono le consuetudini e le norme sociali a fare la differenza: un indagine condotta su un vasto campione di individi di 35 paesi ha messo in luce che l’inclinazione a piangere é più pronunciata negli stati che permettono una maggiore libertà di espressione, come il Cile, la Svezia e gli Stati Uniti.

Sulla base di un’ampia indagine, Dianne Van Hemert, ricercatrice presso la Netherlands Organization for Applied Scientific Research, afferma che le persone nei paesi più ricchi, democratici ed in cui c’é una maggior parità fra i sessi tendono a piangere di più; mentre chi vive nei paesi più poveri si mostra più inibito al riguardo a causa di un “senso del pudore” più severo.

Piangere può anche riflettere il modo in cui stabiliamo i legami affettivi. La psicoterapeuta Judith Kay Nelson sostiene che le persone che nella relazione mostrano fiducia nell’altro e serenità, sono più inclini a lasciar trapelare le proprie emozione e il pianto; chi, per contro, è insicuro del proprio partner e vive con ansia il rapporto tende ad essere piuttosto “piagnone” e il suo pianto spesso è inconsolabile; infine, é estremamente diffcile vedere piangere gli individui che, nel legame di coppia, mantengono un atteggiamento di autonomia e di diffidenza verso il compagno/a.

Per i bambini il pianto é essenziale alla sopravvivenza: si tratta dell’unico modo di cui dispongono per richiamare l’attenzione dell’adulto sulle loro necessità o sui loro disagi. Benché quando cresciamo disponiamo di forme di comunicazione pù complesse, piangere in determinate circostanze può aggiungere un “bonus” alle nostre espressioni.

In uno studio, i partecipanti hanno visto dei ritratti di volti tristi, in cui le guance erano rigate di pianto e altre in cui le lacrime erano state rimosse digitalmente.
L’esito ha dato prova che i volontari giudicavano le facce solcate dalle lacrime più addolorate; per converso, quando le “gocce” venivano cancellate, non solo i volti apparivano meno mesti, ma anche più ambigui: i volontari, infatti, li descrivevano come preoccupati o in contemplazione.

Sul piano interpersonale, chi viene visto piangere da un messaggio, difficilmente ignorabile, di remissione, di aiuto o di ricerca di conforto e consolazione e segnali affidabili di remissione, bisogno o di attaccamento alla persona con cui vengono esibite: in un’indagine di Martijn Balsters, Emiel Krahmer e altri ricercatori della Tilburg University é stato dimostrato al riguardo, che di fronte ad una persona in lacrime, gli intervistati riferivano di essere più disponibili a dare soccorso o sostegno rispetto a quando si trovavano a che fare con individui con il volto atteggiato alla disperazione, ma “asciutto”.

Le lacrime possono anche servire un ruolo catartico, cioé provocare un sollievo dalle proprie angoscie; tuttavia, alcuni studiosi sostengono che il suo effetto liberatorio é stato sopravalutato.

Gli psicologi Lauren Bylsma, Ad Vingerhoets e Jonathan Rottenbergh hanno chiesto ad un gruppo di studentesse di tenere un diario giornaliero in cui annotare se avessero pianto e che effetto avesse fatto loro.

Lo studio ha messo in luce che solo circa il 30% delle partecipanti ha riconosciuto che il proprio stato d’animo fosse migliorato dopo un bel pianto; il 60% non aveva colto alcun cambiamento e circa il 9% riferiva, addirittura, che il proprio umore era peggiorato.

Analizzando a fondo il perché, questi ricercatori avevano scoperto che piangere era stato “salutare” quando, di seguito, avevano ricevuto il sostegno morale di qualcuno; quando piangevano di gioia o se il pianto le aveva portate a comprendere nuovi aspetti della situazione che aveva generato sconforto. I “piagnistei” avevano accresciuto il malessere se chi li aveva fatti aveva provato imbarazzo o vergogna o se si trovava in presenza di gente indifferente alla propria sofferenza.

Per approfondire

In contro tendenza con questa tesi, William Frey ha rilevato che il pianto si era mostrato libertorio nell’88,8% delle persone coinvolte nel suo studio: la spiegazione sarebbe che attraverso questa “spermitura” l’organismo riesca a ridurre il livello del cortisolo (l’ormone dello stress), procurando uno stato di acquiescienza: abbassando il livello di tensione fisica e psicologica, il valore della pressione e la frequenza cardiaca.

Quale dei due studi è nel giusto? Probabilmente entrambi: piangere fa davvero bene, ma il contesto in cui avviene può attenuare o mitigare il suo effetto e perfino rendere quest’atto controproducente.

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