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Lo spazio interpersonale é importante

Il mondo non è piccolo, è enorme. Però ci si incrocia continuamene negli stessi punti, come se fossimo in pochi, mentre invece siamo un numero sterminato…”. Sono le parole pronunciate da un personaggio di una commedia di Natalia Ginzburg, L’intervista.

E’ che esprimono ciò che gli studiosi del comportamento sanno perfettamente: lo spazio, almeno dal punto di vista culturale, psicologico e sociale, non è un semplice “dato”, misurabile sempre con gli stessi criteri.

Al contrario, lo spazio si forma e si modifica attraverso le relazioni tra le persone. Potremmo dire che è il frutto di rapporti e convenzioni sociali.
Un esempio? Il senso di disagio che proviamo quando entriamo in un ascensore pieno di gente. Improvvisamente ci troviamo in un ambiente ristretto, a pochi centimetri di distanza da perfetti estranei. Ci irrigidiamo, ci facciamo più piccoli se possibile, evitiamo di sfiorare i vicini.

Che fare, appoggiarsi alla parete oppure restare nel mezzo sotto gli occhi di tutti? E soprattutto, come evitare di incrociare lo sguardo degli altri, che ci obbligherebbe a scambiare qualche parola di cortesia? C’è chi si volta verso la porta, chi si mette a leggere con aria disinvolta il cartellino dell’assistenza (confessiamolo, l’abbiamo fatto tutti almeno una volta), chi fissa il soffitto o il pavimento. Una situazione molto comune, certo. Ma che può fornire dati preziosi a uno studioso di prossemica, disciplina che si occupa del significato e dell’uso dello spazio da parte dell’uomo.

La prossemica nasce sulla scia dell’etologia (la scienza che studia il comportamento animale), dalla constatazione che gli animali “marcano” il loro territorio, difendendolo se necessario. L’uomo usa metodi più sottili per delimitare il proprio spazio rispetto a quanto fanno i cani, ma a ben guardare il comportamento non è tanto diverso. Anche noi, infatti, lasciamo le tracce del nostro passaggio sugli alberi, i muri, le porte dei gabinetti pubblici, sotto forma di graffiti, firme, cuori trafitti… La stessa abitudine di recintare i terreni o, più semplicemente, di mettere il proprio nome davanti alla porta è un esempio di marcatura del territorio, che serve a dare forza, sicurezza e stabilità. Quando due animali della stessa specie combattono, il vincitore di solito non è solo il più forte in senso fisico, ma quello che lotta all’interno del proprio territorio. E non è un caso che una squadra di calcio parta in vantaggio quando “gioca in casa”.

Gli psicologi sono arrivati a misurare le distanze che l’uomo, nelle diverse situazioni, tiene con i propri simili. Dal momento che i primi a occuparsi di prossemica, all’inizio degli anni Sessanta, sono stati gli statunitensi, le misure valgono per l'”americano medio”. Bisogna ricordare che i popoli latini e mediorientali tendono ad “accorciare le distanze”. C’è dunque la distanza “intima”, che va dal contatto corporeo fino ai 45 centimetri: è quella che tengono gli innamorati, i genitori con i figli piccoli, i bambini tra loro e, in alcune circostanze, gli amici. “Non si tratta tanto di una distanza fisica, quanto psicologica”, spiega Michele Mozzicato, psichiatra e psicoterapeuta. “Non contano solo i centimetri, ma il modo in cui questi centimetri vengono vissuti e comunicati”.

A questa distanza, infatti, è possibile percepire il calore e l’odore della pelle e del respiro dell’altro, che possono suscitare in noi reazioni di piacere o di disgusto a seconda dei rapporti che ci legano alla persona. Basta pensare al disagio che proviamo a sederci in una poltrona appena lasciata libera da un estraneo, se la stoffa è ancora “calda”: questo a volte è sufficiente a creare la sensazione di invasione della sfera intima, anche in assenza di una presenza fisica concreta. Il “metro” dei rapporti A un secondo livello abbiamo la distanza “personale” (per esempio, quella tra due persone che chiacchierano a una festa), a sua volta divisa in due sottofasi: quella “di vicinanza” (45-75 centimetri) e quella “di lontananza” (da 75 centimetri a un metro e 20). “Il limite dei 75 centimetri non è casuale”, osserva Mozzicato. “A questa distanza è ancora possibile allungare la mano e toccare l’altro. Si tratta insomma di un confine che può essere rispettato o varcato e che ci fa capire molto della persona che abbiamo di fronte.

Anche il modo di dire “tenere le distanze”, probabilmente, deriva proprio da uno dei possibili atteggiamenti”. La distanza “personale” è quella che usiamo di più nella vita di ogni giorno. Oltre il metro e 20 centimetri e fino ai tre metri e mezzo, le persone si trovano invece alla cosiddetta distanza “sociale”, tipica delle situazioni professionali. “I tre metri e mezzo sono lo spazio raccomandato per le scrivanie di un ufficio “open space””, afferma Mozzicato. “In questa situazione, nessuno si sente obbligato a parlare con il vicino, trascurando il lavoro”.

La distanza sociale viene spesso manipolata per comunicare determinati messaggi di potere. Lo fa il capufficio che, in piedi, si avvicina all’impiegato seduto e invade il suo spazio personale, per dimostrare la propria supremazia. “La “tecnica dell’invasione” viene usata anche nelle vendite, per mettere sotto stress l’acquirente indeciso e spingerlo a concludere l’affare”, dice Roberto Santori, esperto di Programmazione neurolinguistica (una neuroscienza che studia i meccanismi di percezione della realtà che sono alla base del comportamento, della comunicazione e dell’esperienza) e direttore di Metaconsulting, società romana di consulenza e formazione aziendale. Un esempio estremo di “invasione” si vede nei film polizieschi, durante le scene degli interrogatori. ”

Un modo più sottile per invadere lo spazio dell’altro è quello di usare gli oggetti come “protesi” del proprio corpo”, continua Santori. “A tavola si può giocare con biccheri, oliera e cestino del pane, spostandoli nell’area della persona di fronte a noi, che si sentirà a disagio senza però capirne il motivo”. L’ultimo livello è costituito dalla distanza “pubblica”, oltre i tre metri e mezzo: è quella tenuta dai professori universitari durante le lezioni, dai politici ai comizi, dai cantanti ai concerti, al di là di quelle che possono essere le norme di sicurezza adottate in questi casi. Insomma, è come se ognuno di noi fosse circondato da un “bolla” che si espande o si restringe a seconda delle situazioni.

Le sue dimensioni sono influenzate dall’età, dal sesso e dalle caratteristiche psicologiche di ognuno di noi. Gli uomini solitamente hanno una “bolla interpersonale” più grande rispetto alle donne, molto più abituate al contatto fisico tra loro.
Non solo. La forma assunta dalla bolla non è del tutto sferica, ma leggermente allungata. Infatti, tolleriamo più facilmente un estraneo al nostro fianco piuttosto che di fronte. E neppure lo spazio dietro di noi è neutrale: c’è addirittura chi non sopporta di sentirsi “scoperto” alle spalle, un’area che sfugge al proprio controllo visivo.

A influenzare la gestione degli spazi e delle distanze non sono solo le caratteristiche individuali, ma anche la cultura di un popolo. Se un europeo entra in un cinema, cercherà di sedersi nelle file meno affollate. “Un indiano o un arabo farà esattamente il contrario: troverà posto il più possibile vicino a chi è già seduto”, dice Jolanda Guardi, esperta di cultura araba dell’Associazione Italia-Asia di Milano. Ancora, in Occidente è considerato poco delicato fissare le persone per strada o sui mezzi pubblici, mentre chi viaggia in India o in un Paese islamico deve abituarsi allo sguardo insistente dei curiosi, incuranti di “Il motivo sta nel fatto che per i musulmani la distinzione tra pubblico e privato si gioca tutta sulla suddivisione tra interno, legato al femminile, ed esterno, regno dell’uomo”, continua Jolanda Guardi. “Le case arabe, per esempio, sono spoglie esternamente – a differenza delle nostre che vengono abbellite anche con vasi di fiori ai balconi – ma sono decoratissime all’interno. Sulla base di questa separazione, una donna che circoli liberamente per strada senza velo in teoria appartiene a chiunque la desideri”. Il velo, in questo caso, non serve solo a nascondere, ma anche a creare una barriera protettiva, a “tenere le distanze”. Distanze che si accorciano nel bagno (“hammam”), che le donne frequentano in gruppo, per conversare e socializzare. Il contrario di quanto avviene in Occidente, dove il bagno è il luogo privato e individuale per eccellenza. La forte separazione tra ambiti maschili e femminili porta i musulmani a un avvicinamento tra individui dello stesso sesso: non è raro vedere uomini arabi che camminano per strada tenendosi per mano, senza per questo essere sospettati di omosessualità. Segno che la concezione del corpo e il tabù del “confine invalicabile” variano da cultura a cultura.

Per fare esempi più vicini a noi, capita che italiani e spagnoli siano giudicati invadenti dagli anglosassoni, per la loro abitudine di gesticolare mentre parlano e di avvicinarsi all’interlocutore, pensando di farsi capire meglio. Viceversa, i nordici vengono considerati distaccati e freddi a causa dei loro atteggiamenti molto più statici. Insomma, lo spazio è organizzato secondo schemi che riflettono la cultura e le esigenze degli esseri umani che lo popolano. Ed è proprio lo spazio a parlarci di queste diversità. Imparare ad “ascoltarlo” potrebbe essere un modo per conoscere l’altro. E magari accorciare le distanze.

di Francesca Capelli , Newton

Per approfondire l’argomento:

Marco Pacori: I Segreti del Linguaggio del Corpo
ed. Sperling&Kupfer,
ottobre 2010
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